Come ci si comporta dinnanzi all’insorgere di conflitti all’interno di gruppi e comunità transitorie o permanenti? Cerchiamo di definire in origine il significato che vogliamo qui dare al termine “conflitto”: ci si trova di fronte o a far parte o anche a promuovere un conflitto qualora si manifestino punti di vista differenti, e quindi ragioni proprie da difendere o da imporre, su vari argomenti di natura ampiamente disparata, dalle relazioni interpersonali al mondo del lavoro, dalle dinamiche di convivenza allo sport. Un passo ulteriore andrebbe fatto nel discernere la sottile differenza tra competizione e conflitto e sull’opportunità che nella storia questa ha creato. Nel tempo infatti i conflitti sono stati spesso tanto più partecipati quanto meno voluti e le competizioni (ad alto livello) tanto più desiderate quanto meno partecipate, tant’è che se ne sono create simulacri adatti a tutte le categorie. A dire il vero, anche dei conflitti se ne trovano repliche; dove però non ci si procura un danno reale si rimane in un ambito non realmente conflittuale e molto più simile a quello competitivo (gioco a fare la guerra, ma nessuno muore o si fa male, semplicemente qualcuno vince, qualcuno perde).
L’inseme di tutte queste regole può essere facilmente traslato nell’ambito personale. Quand’è che dalla competizione scaturisce un conflitto? Quand’è che ci si inizia a fare male sul serio? Quanto una parola detta in più ferisce, quando un minuto prima si stava semplicemente dialogando, ci si scambiava un’opinione anche se in effetti si faceva a gara per imporla sull’altra?
Questa casistica è di nuovo straordinariamente ampia e difficilmente affrontabile da chi non è esperto e vorrei restringere il campo centrando l’ambito sulla presa di posizione.
Scegliere. Scegliere per tanti o in vece di tanti. Tra le popolazioni occidentali questo è più o meno garantito da diverse forme di democrazia rappresentativa, non sempre, in effetti, particolarmente capaci di esprimere correttamente la volontà dei molti. In ogni caso quando dai molti si passa ad alcuni, le cose sembrano complicarsi, specialmente nel nostro paese (a differenza di altri) negli ultimi anni. È sempre più difficile cioè, scegliere anche solo dove far passare una strada, quanto grande fare un parcheggio, o un parco, dove mettere un campetto da calcio, una panchina, una fontana. Dove più si decide di fare, più ci si ritrova di fronte qualcuno che pensa che quello o non si dovrebbe fare del tutto, o nella migliore delle ipotesi, se cioè universalmente riconosciuta l’importanza di quel “fare”, il modo, il luogo, il tempo, il gusto, lo spazio, il colore, l’altezza, il volume, il raggio, il suono oppure una qualunque tra tutte le combinazioni delle possibili caratteristiche esistenti applicabili ad ogni cosa, non andrà bene. Come un’aberrazione di democrazia partecipativa il singolo tenta di far valere le proprie motivazioni al di sopra di quelle di tutti gli altri. Le giustificazioni di questa incredibilmente tenace resistenza mi sono tuttavia ignote. Posso supporre però che l’imborghesimento delle classi medie abbia portato negli ultimi anni all’impoverimento del sentimento di solidarietà che da sempre ha caratterizzato le popolazioni non in conflitto. È un po’ cioè come se all’interno delle comunità locali si sviluppino di volta in volta, sulla base di una convenienza non completamente chiara, (oltre a quella strettamente personale, del singolo) infiniti micro conflitti tesi a difendere o a conquistare spazi di atomicità apparentemente disumani.
Se spostiamo il livello ancora di una tacca e scendiamo in un piccolo gruppo, tra amici, colleghi, compagni di squadra o di classe, le dinamiche di relazione prendono spesso il sopravvento e c’è chi non ha voglia di litigare, chi non ha voglia di decidere, chi non ha idee, chi vuole sempre stare al centro dell’attenzione, chi vorrebbe con tutto il cuore fare qualcosa ma non ha il coraggio di farlo, chi magari si sente più bravo o più forte e decide per gli altri. La forma di governo di questi microcosmi varia incredibilmente nel volgere anche di pochi istanti dal socialismo più reale al totalitarismo più ideologico e su argomenti magari non così dissimili tra di loro. Inevitabile sembra essere quindi il passaggio dalla competizione della propria idea sulle altre, allo scontro, frontale senza esclusione di colpi: l’impatto sull’ambito, imponderabile. Sono in genere un buon pacificatore e penso anche di essere diventato organicamente propositivo (è una cosa che si impara) ma rimango ancora molto severo con chi intralcia, chi chiama ingiustamente in causa, chi compromette. Però mal sopporto chi grava su di tutti il proprio malessere e ancor di più detesto l’accidioso. Ma in questo non voglio un conflitto. Di questo non mi faccio carico.
Ho scelto.
Ignoro.