Ritorno

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Il fischio delle ruote che si arrestano mi ha sempre ricordato quello del gesso trascinato sulla lavagna di ardesia, solo moltiplicato per mille: metallo contro metallo, efficienza meccanica, attrito, calore. Qua fuori stasera invece è freddo e l’arrivo, previsto alle ventitré e trenta, si è caricato dei canonici dieci minuti di ritardo. Addosso mi resta quell’odore denso delle mattine alle sei negli anni dell’università, della condensa sui finestrini d’inverno e dei vagoni maleodoranti: il ricordo di un’Italia che aveva avuto l’illusione di avercela fatta e invece si sarebbe poi vergognata di quei giorni. È la mia stazione, mi preparo, scendo i tre gradini e atterro sulla banchina vuota e gonfia di una impenetrabile coltre di nebbia. Il primo respiro mi riempie i polmoni di bruma e una scarica di freddo e umido mi dà un piccolo brivido, uno di quelli che sale dal fondo schiena e si arrampica su fino alle spalle, spinge il petto in fuori e fa avvicinare le scapole. Dura solo un istante perché alle boccate successive, l’organismo si è già abituato: ha fatto la memoria negli anni della giovinezza.

Il treno non riparte, è al capolinea e tutta la stazione si ricopre di un silenzio totale; binario uno, non ho bisogno del sottopassaggio, attraverso l’atrio deserto e sono nella piazza. Anni fa era diversa, ci passavano le automobili dentro, poi piani regolatori, sostenibilità, campagne elettorali… è diventata un giardino. Da sempre mi chiedo a che cosa serve un giardino? O lo si usa o lo si guarda. E se lo si usa, ecco se ne gode del farlo, se lo si guarda, beh ci si rallegra del bello. Qui non posso né l’una né l’altra cosa: che disastro.

Attraverso la strada e trovo un altro giardino, vero stavolta e grande, ma purtroppo a quest’ora è chiuso. È completamente circondato da un’alta recinzione di ferro e il cancello che mi trovo davanti è sbarrato, uno spazio inaccessibile. Non posso usarlo, né posso guardarlo, da fuori la caligine mi impedisce la vista, posso scorgere solo fino a pochi passi davanti a me. Decido allora di aggirarlo in senso orario, non mi sono mai piaciuti gli “anti”, né nel giro delle lancette dell’orologio, né nei comitati e nelle organizzazioni a sfavore di qualche cosa. Mi è sempre sembrato che l’essere “No X” si perdesse ogni volta la vitalità della proposta, mancasse sempre dell’idea, della costruzione, del fare, in un’eterna notte di Penelope.

Al primo angolo cambio marciapiede, di fronte ho una costruzione imponente, grigia e austera ma anche bella. È una scuola elementare. Mi fermo davanti alle grandi scale che conducono all’ingresso, chiudo gli occhi ed ecco apparirmi le mie di scale, della mia scuola da bambino e dopo pochi istanti, un suono immaginario spunta dalla nebbia, si ode un vociare di strilli e di grida, risate e urla, tutte sul registro più acuto dello spettro sonoro. È come se fossero lì, decine, centinaia di piccoli esserini che a rotta di collo, si lanciano tra le braccia di un papà o di una mamma. E sognarla, questa scena mi fa scendere una lacrima grossa, la stessa che mi bagnò la guancia un giorno di tanti anni fa, salite quelle scale (più piccole, ma sempre belle) verso l’ingresso del mio primo giorno di scuola. Non ho il ricordo di essermi voltato sulla porta, ma di aver guardato dalla prima finestra, subito dentro sulla destra. E là oltre il vetro sottile, dopo il piccolo cortile e il cancello, c’eri tu, mamma. Tu-tum, il cuore mi dà un battito più forte.

“Coff coff”

È questo il rumore che mi riporta alla realtà, c’è qualcuno qui vicino, l’ho sentita tossire. Lei è lì a pochi metri seduta su una panchina, indossa tre o quattro cappotti pesanti e ai lati, come a difenderla dal mondo, ha due borsoni giganti ricolmi di chissà che cosa; tiene stranamente le gambe accavallate e ha il volto pieno di rughe.

  • “Buona sera”
  • “Buona sera”
  • “Come va?”
  • “Bene”
  • “Come stai qui?”
  • “Un po’ freddo”
  • “Hai bisogno di qualcosa?”
  • “No, grazie”
  • “Che ne so due spicci, un panino?”
  • “No, grazie”
  • “Beh allora buona sera”
  • “Buona sera”

Supero la signora della panchina ancora un po’ stupito dalla raffica di risposte così ferme nel senso e allo stesso tempo così traballanti nella voce. Mi chiedo cosa magari avrei potuto chiederle per riuscire ad aiutarla in qualche modo; chissà com’è davvero la sua vita, quante storie avrà da raccontare?

Arrivo ad un altro giardino che è affacciato sul sagrato di una chiesa ed è preceduto da una doppia fila di alberi. Disposti in questo modo sembra che stiano lì, proprio quasi a separare il sacro ed il profano; di qua la casa di dio, di là quella degli uomini. Gli alberi che dalla terra partono per fare rotta verso il cielo, magnificamente nel loro dividere, uniscono.

Al di qua altri alberi, sparsi un po’ a caso; si dice sia dei vecchi l’esperienza del saper mettere a dimora le piante alla giusta distanza, quella saggezza data dall’aver visto un albero, negli anni, crescere e diventare grande. Questi avranno più di cent’anni, e chi li ha piantati mai lo avrebbe immaginato che tra le loro cortecce, come lunghi versi di una preghiera recitata per troppi anni a memoria, si sarebbero poi elevati alla divinità: il profumo fragrante di una pizza appena uscita dal forno, il baffo della schiuma della birra che si ferma sul labbro superiore al primo sorso, le note di una canzone che si mischiano alle parole sussurrate dell’amico, l’allegria chiassosa di un mercato per strada, il pizzico delle spezie, l’abbaiare gioioso di un cane, la figura stagliata sullo sfondo di un signore elegante che legge il giornale, il drindrin di un campanello della bici.

Un giardino di vita.

“Dooooonng”

È mezzanotte.

Ecco, sono tornato.

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