C’è nell’arrampicata in montagna, in quella al limite delle tue capacità, un momento in cui arrivi ad affrontare un problema: durante l’ascesa, ti ritrovi in un punto preciso della salita particolarmente ostico, tanto da poter essere affrontato in un unico e ben definito movimento. O compi quel gesto, mutuato da anni di allenamenti, cadute, dita spellate, corde, muscoli, nodi e sudore, oppure finisci li, termini, e rimani così, macchia sulla parete.
Il passaggio obbligato.
Il bello è che al progredire in capacità e destrezza corrisponderà quasi sempre l’acuirsi della difficoltà del gesto perché a nuova possibilità risponderà la ricerca di imprese sempre più ardue e terribili.
Anche la vita mi sembra così, fatta salva la ricerca. Il progredire è naturale, quasi automatico; l’allenamento, involontario. Il terribile, l’arduo è invece insito in essa e non ci si può sottrarre. Ci si ritrova così, sempre impreparati, ad affrontare nell’unico modo possibile quel movimento richiesto, e non importa che sia la testa o la pancia a “tirare”. Senza corda, senza chiodi, e a farlo bene quel gesto per non rimanere sbavatura d’inchiostro sul libro dell’esistenza.