C’è un certo grado di difficoltà nello stabilire quale sia la persona giusta. Per cosa, poi?
La maggior parte delle volte (e qui mi sto prendendo una grande libertà nell’affermare questo; ne sono cosciente e me ne assumo tutte le responsabilità comprese quelle che mi potrebbero far definire una persona che giudica) la persona che abbiamo accanto non è quella giusta.
Qualcuno parla di caso o di fortuna nell’incontro con l’altro, l’altro come uomo, l’altro come animale con quell’istinto riproduttivo che va alla caccia dei migliori geni per la propria discendenza. In modo semplicistico lasciamo che in questo sia il senso della vista spesso a prevalere su tutto il resto. Ma se vediamo l’altro anche come essere capace di discernimento, l’essere capace di emozioni, sentimenti, amore, l’occhio potrebbe rivelarsi miope.
In questo senso la persona migliore che dovremmo aver accanto prima di tutti siamo proprio noi stessi.
Il problema è che spesso questo non accade.
Ci ritroviamo quindi nella maggior parte dei casi a confrontarci con persone che possiamo definire sbagliate. Questa situazione, tuttavia potrebbe rivelarsi inaspettatamente vantaggiosa poiché il misurarci con l’incomprensione (in qualche modo comunque inevitabile) che scaturisce dall’altro, dovrebbe stimolare un processo di riavvicinamento a se stessi di tipo involontario; percorso che magari non si sarebbe mai affrontato da soli.
In tutte le dinamiche del comportamento umano è facile però immaginare come possibili alcune derive, la principale delle quali in questo caso è: l’accontentarsi.
C’è un vizio formale in questa teoria: se parto dalla persona sbagliata non posso fare altro che appagarmi, tentare cioè di farmela andare bene; detta così sembrerebbe come provare ad entrare in una taglia 40 essendo invece una 44.
Provo a dimagrire l’imprecisione.
Lo faccio estraendo dal verbo pronominale la radice: contento.
Dal latino “Contèntus”, participio passato di “Continère”, tenere in sé, contenersi.
L’aggettivo stravolge il verbo e lo trasforma in “avere l’animo appagato”, mi soffermo proprio su questo passaggio tra il contenimento e l’appagamento.
È una sorta di rivelazione, come se e proprio la moderata soddisfazione derivasse dall’evitare di cedere qualcosa da sé.
Mi domando quindi immediatamente se non sta forse in questa cessione (cfr. aderire) la rimozione del limite, la ricerca di qualcosa che vada oltre, a qualcosa di meglio.
Anche in questo caso si giunge quindi ad una dicotomia.
Liberare una parte di me nell’altro è ciò che non solo mi rende partecipe dell’altro, non solo mi rende disponibile all’ingresso dell’altro, ma è anche e soprattutto quello che toglie la moderazione all’esaudimento.
Per essere quindi più contento, cioè per tenere più in me, per avere di più dentro di me, paradossalmente devo cedere una parte di me: avere meno “me” in me.
Se torno quindi a confrontarmi con la “persona sbagliata” posso notare quanto sarà difficile cedere una mia parte di fronte ad una inadeguatezza, quanto sarà difficile confidarmi, affidarmi, fidarmi.
Tutto ciò che rimane in me è quindi la frazione esatta di quanto sarò infelice o dimentico di felicità; tutto ciò che non va nell’altro non mi testimonia come dovrebbe nell’altro e per gli altri.
Ma se tutto cedo, cosa conservo dunque di me stesso?
La volontà, l’animo.
Sono io a volerlo, altroché il caso.