Io non sono quello che faccio.
Comoda giustificazione di un lavoro che magari non mi piace o di qualche errore, scelte sbagliate da dimenticare. Eppure la società di oggi è tutta orientata di lì. Essa giudica, sentenzia, declama, ed esalta proprio l’azione, il gesto, il fatto.
E a giocare come sempre con questa meravigliosa lingua trovi questa migrazione: “il verbo si fece carne”, un verbo diventa nome (se San Giovani non ha nulla da ridire).
Dal verbo participio eredita però il tempo al passato, che lo inchioda lì, alla croce dell’essere già esistito.
Fatto.
Da partecipe diviene così grado di giudizio definitivo: ciò che ho fatto, diventa un fatto e di quello sono (per) sempre chiamato a rispondere. Il passato dell’agire è condanna inappellabile all’immutabilità, il suo presente è invece in divenire, di certo incerto ma vivo, attivo: tuttalpiù se pigro si traveste da aggettivo.
Ma se non sono ciò che faccio, posso fare ciò che sono?
Se al posto di “fare” proviamo ad “essere”, che succede?
Essere – Stato.
Il mio infinito passato stabilisce chi sono (pardon, chi ero), diventa spazio, luogo da abitare, nazione, popolo.
Appartengo a un’entità che mi definisce e svela quali sono le mie caratteristiche sociali, politiche, territoriali; mi uniforma all’altro, mi omologa per sdoganarmi.
Al presente è uno che prende il posto mio, un qualcuno che non sono ancora io. Come se, esattamente se, a vivere questa vita sia un altro me, un me precedente a quello che diventerò e un me successivo a quello che ero.
Io, un io alla ricerca dell’io senza chance di raggiungere l’io.
Pura coscienza alla ricerca del sé. Una eterna condanna alla rincorsa infinita.
Eppure c’è dell’altro che mi ancora all’esperienza, al vissuto, al quotidiano. Troppo facile dileguarsi in puro spirito, in ammirazione e meditazione. C’è qualcosa che mi lega a te dal profondo, semplicemente per il fatto che “tu” esisti, un legame metafisico fa da varco all’ingresso del mondo materiale.
Questo precipitare nel reale e di contro tentare di sfuggirvi, mi ricorda la ragione per cui scrivo: mi serve per mettere a fuoco la realtà, quello che mi succede e ciò che provo, mi serve a staccarmi da me stesso e osservarmi dal di fuori, per mettere in fila i pensieri e trovare risposte.
Ma oltre a questo c’è qualcosa di terribilmente concreto e spaventoso, la consapevolezza dell’essere testimone, la possibilità che qualcuno si emozioni o si interroghi su una mia riga mi impegna allo stremo.
Non è intrattenimento, non un animale da palcoscenico (per ora).
Per entrambi gli scenari comunque non sono ancora pronto, non attrezzato, non esperto.
Ma questo fa parte dell’essere.
È giunto il momento di fare.