Esegesi di un Difficile

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Dormire.
Non ci riesco.
Allora mi alzo dal letto e giro intorno alla stanza ma non sono cosciente e percorro i chilometri di un sogno ipnotico che mi sembra reale e irreale allo stesso tempo; dove ho la testa? Non me la sento più. Non attaccata al resto del corpo. Eppure vorrei risvegliarmi, no, no, voglio aprire di nuovo gli occhi ma non sto dormendo, non è ancora abbastanza tardi e fuori è ancora buio. Cosa fare?
Cosa faccio a quest’ora misteriosa, che non è più mattino e non è ancora notte? Chi ci si è mai trovato in questo tempo voltato al contrario? Non sono capace, qui niente funziona più come dovrebbe, un progetto, una vita in frantumi, un resto, mi raccolgo stretto ad un lenzuolo.
Piango.
Così sembra che il pianto sia la medicina di un letargo e in parte lo è: risveglia. Mi incazzo, visto che sono giorni che non dormo. Mi riporta al mondo, mi fa rinascere. Completamente nuovo, bambino, neonato, incapace di tutto.
Il primo segno è il cibo.
Non sono più capace di mangiare, come se nutrirsi e più precisamente il non nutrirsi fosse manifestazione organica del sentimento di abbandono, di perdita della voglia di vivere. Non desidererei più vivere quindi il mio corpo non mangia. Dovrei essere imboccato ma nessuno lo fa più da secoli. Non è scelta né capriccio, è molto più semplice: è che non me lo ricordo. Non mi ricordo come si fa, non mi ricordo perché lo si fa, non lo so più fare. A nulla valgono i rimproveri, i consigli: latito. Eppure in questo limbo, il condizionale non si coniuga mai al passato: annuso e sento l’odore dell’acqua nel fossato e improvvisamente, quel baratro, sul ciglio del quale mi trovavo, si allontana, la macchina rallenta la sua corsa. Non lo so chiamare ancora quell’impulso, quel getto, quello slancio, non so qual è il suo nome. Difficile. So solo dove andare.
Mamma.
E quando mi rialzo, liquido, dal tuo abbraccio, ecco l’indicativo, solo non più negato: desidero. Mi hai ridato alla vita; che dolore per te mamma, già una volta mi hanno separato dal tuo ventre, mi hanno preso, staccato, spezzato da te.
Ti invidio donna per questo ruolo che hai dalla natura, ti invidio e tremo.
Ti invidio per l’ebbrezza di due battiti in un seno.
Tremo il distacco.
Tremo per te, ti sei messa il figlio grande e grosso ancora in grembo e di nuovo l’hai partorito.
Alla vita.
Ma questa è solo e tutto consapevolezza: sapere di vivere, sapere di volerlo.
Grazie.
Un passo.
Il secondo è stato un caso o una disgrazia, oggi direi benedizione: ho letto i miei, negli occhi di un’amico.
Grandine di parole, sudore e sangue; di uno la bocca e dell’altro le orecchie. Di entrambi balsamo per il cuore e bende per le ferite.
Il terzo e il quarto la musica e poi i libri, mondi paralleli, pianeti, distanze, spazi liberi per l’anima; devo andare, devo andare, correre lontano, lasciami andare.
È stato inaspettatamente breve e inaspettatamente duro, di certo da solo non ce l’avrei fatta.
Questo credo voglia dire: saper andare incontro alla morte.
La tua, compresa.
È che, dopo, non sei più tu, da lì inizia un’altra strada.
Difficile.

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