Sedia, tavolo, scacchiera, pezzi, campanello, orologio.
Tocca a te.
Muovi.
Muoviti!
Sbaglia.
Perdi un pezzo.
Annota l’errore.
Memorizza il passo.
Cambio di scenario.
Riorganizza.
Ricomincia.
Rimuovi.
Riprendi.
Errati punti di vista.
L’altro è sorprendentemente eterologico.
Nell’unica partita a tempo non si può stabilire la durata di un’azione né la sua certezza; ma non tanto di efficacia, quanto di genitura.
Molte sconfitte per quale vittoria?
Violazione delle regole.
Devo forse intendere tutto questo come una partita? Mi alzo e abbandono; lascio il campo, me ne vado. Ridiscendo il fiume (ma quale cavolo di fiume?). Nel viaggio verso la sorgente, all’ultimo bivio ho sbagliato affluente.
Eccolo.
Imbocco con fatica l’altro corso, seminascosto da un intreccio di canne frondose, le foglie mi si appiccicano a formare uno strano sandwich: derma, cotone, clorofilla. È intricato l’imbocco, sbarrato quasi. Spine. Mi lecco una piccola ferita sul dorso della mano e il liquido denso e ferroso si spande sul palato e piano in gola, mi inebria, riguardo il graffio, ha già smesso. Mi sorprendo a pensare come pur essendo inospitale quel luogo mi dia riparo, mi offra protezione; ma non ho scelta, perché ho già scelto, forse non l’avevo mai fatto? Proseguo. Nel tratto che segue, macchie di ibisco adagiate sulla collina di fianco a me, non ne sento il profumo ma solo un’occhiata basta a saturare la macula. Distolgo lo sguardo per rivolgerlo a qualcosa di più flebile e meno ingannatore. In quel momento un’ubara si alza nell’aria; lei e la stagione al termine mi dicono che sto uscendo dal mio deserto. A quel punto mi fermo impietrito: madido di sudore in quel caldo abbagliante ho freddo. Piccole variazioni biochimiche, generate da tenui impulsi elettrici scaturiti da timide emozioni, alterano in modo impetuoso il mio equilibrio. Tremo atterrito di fronte a quell’evidenza. So.
Mi siedo e preparo un piccolo rifugio per la notte.