Quella mattina Paolo, si era svegliato di buon’ora come era solito fare. La sua giornata iniziava sempre con il canto delle lodi, una tradizione ereditata dalla nonna che lo aveva allevato come una seconda madre. Gli piaceva recitare quelle parole sotto al portico dell’oratorio che dava verso ovest, dalla parte dove il sole tramontava, perché da lì si vedeva scendere piano l’ombra di quel grande palazzone che dal fondo della strada veniva proiettata all’alba, fin sulle case di fronte. Era grazie a quella discesa, immaginata come un contrappeso che sarebbe riuscito a far salire la sua preghiera fino a Dio. Paolo in quel momento decise che da grande avrebbe voluto fare il prete.
Ritorno
Il fischio delle ruote che si arrestano mi ha sempre ricordato quello del gesso trascinato sulla lavagna di ardesia, solo moltiplicato per mille: metallo contro metallo, efficienza meccanica, attrito, calore. Qua fuori stasera invece è freddo e l’arrivo, previsto alle ventitré e trenta, si è caricato dei canonici dieci minuti di ritardo. Addosso mi resta quell’odore denso delle mattine alle sei negli anni dell’università, della condensa sui finestrini d’inverno e dei vagoni maleodoranti: il ricordo di un’Italia che aveva avuto l’illusione di avercela fatta e invece si sarebbe poi vergognata di quei giorni. È la mia stazione, mi preparo, scendo i tre gradini e atterro sulla banchina vuota e gonfia di una impenetrabile coltre di nebbia. Il primo respiro mi riempie i polmoni di bruma e una scarica di freddo e umido mi dà un piccolo brivido, uno di quelli che sale dal fondo schiena e si arrampica su fino alle spalle, spinge il petto in fuori e fa avvicinare le scapole. Dura solo un istante perché alle boccate successive, l’organismo si è già abituato: ha fatto la memoria negli anni della giovinezza.